valentinafalsetta.it

Perchè abbiamo bisogno di eliminare le microaggressions


Loading

Nel linguaggio quotidiano e sui luoghi di lavoro

Microaggressioni:

“Le microaggressioni, per definizione, sono piccoli atti quasi inconsci che compiamo ogni giorno e ai quali non diamo molta importanza, ma l’azione costante finisce per avere un impatto negativo sulla persona aggredita.

Si manifestano sotto forma di atti o commenti sprezzanti – che sono generalmente accettati socialmente – ma che promuovono stereotipi o generano stigma su una persona. I commenti razzisti, sessisti e classisti sono un esempio di microaggressioni nella vita di tutti i giorni, ma ce ne sono molti altri.

Non sedersi accanto a qualcuno in metropolitana a causa del suo aspetto, interrompere le donne più degli uomini quando parlano pensando che non abbiano nulla di interessante da dire, pensare che qualcuno sia meno intelligente perché ha un’origine etnica diversa dalla nostra, credere che chi appartiene a una classe sociale più svantaggiata è un cittadino di seconda classe, sono alcuni esempi di microaggressioni nella vita di tutti i giorni.” Fonte Angolo della Psicologia ⋆ Blog di Psicologia (angolopsicologia.com)

Credo che il primo passo sia ammettere ed essere coscienti che stiamo parlando di un fenomeno esteso e che ognuno di noi potrebbe, volendo o meno, mettere in atto o esserne il destinatario.

Da qui bisogna partire e arrivare al centro del problema.

Se potessimo riscoprire l’importanza della parola e della gentilezza

Quello delle microaggressions è un elemento che ritroviamo in una società in cui non è ancora del tutto estirpata l’abitudine allo stigma, peggio ancora il posizionamento della scelta delle parole sull’ultimo gradino nella scala delle priorità.

Essere gentili, avere a cura la sensibilità dell’altro tanto quanto vorremmo fosse fatto per noi, è prendersi un minuto per pensare: quale potrebbe essere l’impatto della mia frase sull’altra persona?

Un modus operandi che, certo, sarebbe utile non solo per evitare le microaggressioni nei luoghi di lavoro o nelle relazioni, ma per vivere meglio gli uni con gli altri.

Ho perso effettivamente il conto degli episodi di aggressione verbale, ingiustificata, cui ho assistito nei grandi casi e nella realtà di ogni giorno. Importante notare come talvolta gli attacchi arrivino non solo dall’estraneo e nelle interazioni sociali, ma anche in famiglia, o dal proprio partner: non per la vicinanza, o l’affetto, un simile danno si deve tollerare o peggio giustificare.

Ripartire dall’educazione alla parola è un arduo compito. Per esperienza personale posso dire che alcuni aggressori “verbali” seriali non sono disponibili ad alcun tipo di rieducazione empatica. Per il resto, quel che dobbiamo cercare di promulgare, è ancora una volta la gentilezza e la cura. Poeti, scrittori, artisti, attivisti, politici, librai e divulgatori: un microcosmo da cui reimparare a bilanciare le frasi che utilizziamo, l’attenzione alle sensibilità e ad accantonare la superficialità terminologica.

Sono da un po’ di tempo ormai osservatrice di quel che chiamo pensiero breve e che dilaga in ogni forma, dalla realtà al web alle comunicazioni dei mass media. E’ la non curanza con cui si sceglie deliberatamente di arrecare offese per questioni di genere, cultura, religione, per motivi meramente personali e così via; l’integrazione facile del vocabolario con termini stereotipanti.

Pregiudizi socialmente condivisi

L’intrinseco aspetto problematico delle microaggressioni è che sono più difficili da individuare e di conseguenza condannare, poichè basati su stereotipi, pregiudizi socialmente condivisi.

Gli esempi sono infiniti, da donna potrei citare la frase: “Oggi è nervosa e acida perchè è in quel periodo del mese”, la durezza sul lavoro da parte del sesso femminile, se non accettata, viene vista come conseguenza di fatti naturali e non come la sua predisposizione alla produttività.

Oppure ancora: “Tu non sei come le altre”, pseudo complimento a scapito del genere d’appartenenza;

“Mi sorprende che una donna possa essere avvenente ed intellettualmente impegnata”- a volte molto velato;

“Ok sei nato in Italia… ma di dove sei veramente?”;

“Come fai a parlare l’italiano\inglese così bene?”

“Forse potresti lisciare i tuoi capelli afro per il lavoro… sai, non sono molto professionali”;

“Oh, oggi sono un po’ discalculico\ altro problema”;

” Ma io capisco il problema della comunità nera… in fondo ho lavorato per anni con molti di voi”;

” Per me non esiste il colore della pelle” -n.b. c’è differenza fra negare l’esistenza della comunità in questione ed essere antirazzista- ;

Per ultimo l’episodio di ieri in Champions League durante la partita PSG-Basaksehir in cui l’ufficiale di gara, il rumeno Coltescu, indica un giocatore come “black guy” (ragazzo nero).

Pensare prima di parlare vuol dire considerare che frasi del genere suddetto non siano state ascoltate dal nostro interlocutore solo una volta, ma al contrario sia vittima sistematica di tali pregiudizi, tanto che spesso il pensiero comune a noi spettatori è quello di giudicare la reazione di chi subisce microaggressions come esagerata.

Se ci soffermassimo sul background del perchè la reazione nel caso concreto sia stata forse sproporzionata a quel singolo scherzo, atto, frase ironica, riusciremmo davvero ad entrare in sintonia con l’autostima minata che un fenomeno “micro”, ripetuto all’infinito, provochi.

Riproduzione riservata