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Vivere una vita non è attraversare un campo


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In questi ultimi tempi ho letto tre libri che per qualche motivo mi sembravano legati l’uno all’altro, ma come scrive Carrère in uno dei tre, cioè Limonov, questo legame, questo messaggio, non lo sapevo bene quale fosse.

Avrei infatti voluto scrivere un racconto per la rivista con cui collaboro in cui parlavo di come anch’io, come Paolo Nori in Vi avverto che vivo per l’ultima volta, ero a Como e pensavo al perché nella vita mi piacciono molto le cose che mi fanno paura: quando ascolto un bel discorso e voglio fare una domanda ma divento rossa, ho paura, quando ho davanti una pagina bianca, ho paura, quando sono presa dall’euforia di far qualcosa, ho paura.

Noi e Anna Achmatova, che è il sottotitolo del libro, mi ricordava che in Limonov il destino di uno strano personaggio e dell’Unione Sovietica e della Russia parlava anche di tutti noi, della storia, del presente, di dove la Russia stesse andando segnata da omicidi come quello di Anna Politkovskaya. E dove la Russia stia andando insieme a tutti noi lo capirebbero tutti i polarizzati se leggessero questo testo di Vonnegut:

«Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare a un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra i nemici non devono riempirli di soddisfazione o di gioia.

Ho anche detto loro di non lavorare per società che fabbricano congegni in grado di provocare massacri, e di esprimere il loro disprezzo per chi pensa che congegni del genere siano necessari.»

C’è poi un testo di Cechov letto da Nori venerdì al Salone che fa così:

“Ti chiedo di ricordare che l’autoritarismo e le menzogne hanno rovinato la giovinezza di nostra madre. L’autoritarismo e le menzogne hanno rovinato la nostra infanzia a tal punto che il ricordo che ne abbiamo è nauseante e spaventoso. Ricordati l’orrore e il disgusto che abbiamo provato quando eravamo piccoli e nostro padre si arrabbiava a cena perché la minestra era troppo salata, o insultava nostra madre e le diceva che era stupida…

I comportamenti autoritari, lo sai bene, sono comportamenti criminali…”. Dopo, uscita dalla sala, camminavo nel Salone e ascoltavo della contestazione a Eugenia Roccella e ho pensato che non mi era mai successo di vedere una dimostrazione pratica così velocemente: ora bisognava stabilire quali fossero i comportamenti autoritari e da parte di chi, come lo stabilire in Russia cosa fosse fake news e cosa no: gli atteggiamenti e come li si racconta, avete capito, mi piacciono e mi fanno paura. Chi contesta (ognuno sceglie come) chi sta al potere e indirizza e assume posizioni che si riflettono sui cittadini, è antidemocratico?

In V13, si ripete molto spesso una massima di Spinoza adatta al mondo dei diritti, dei tribunali, degli scrittori: “Abbiamo dimenticato il grande precetto di Spinoza: non deridere, non compiangere, non condannare, comprendere soltanto.” Si può fare persino del processo ai terroristi un racconto dignitoso, senza dubbio si può fare di una cronaca giudiziaria un pezzo di letteratura: dire una verità (che in questo caso corrisponde a non fiction), testimoniare attraverso di sé un momento collettivo che entra a far parte della storia giudiziaria per la straordinaria empatia delle parti civili nei confronti degli imputati.

La mattina dello stesso sabato seguo una lectio a due passi dallo stesso Carrère con Ilde Carmignani e Ena Marchi: si parla di traduzione e quindi di fedeltà o infedeltà al testo, l’autore preferisce una traduzione “bella e infedele” pur rimanendo ancorato all’idea che lo muove e lo incita a scrivere: fare della letteratura un luogo in cui non si mente.

La letteratura, quindi, delle cose vere, della realtà. E mi veniva in mente Francesco Piccolo che venerdì diceva (parafraso): 1. Mi pare di scrivere per cercare, alla fine del libro, di capire cose che non capivo e alla fine non so se le ho capite; 2. Un libro che io leggo ha la possibilità di essere richiuso se non lo percepisco vero, reale.

E io insomma son dovuta salire a Torino per capire quello che volevo capire ma non so se ho capito, ossia il gusto della realtà che mi attira e mi stringe in una morsa mi ossessiona e porta l’euforia di scrivere (ma scrivere è anche il dubbio e il silenzio, l’attesa soprattutto); e in secondo luogo che ha ragione Pasternak, Vivere la vita non è attraversare un campo, magari è attraversare una brughiera, può essere sia prendere a piene mani dalle vite degli altri, e nel mezzo qualcosa come vivere uno spazio che è già di per sé fare letteratura.