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Vi scrivo da un carcere in Turchia


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È successo ancora.

In Turchia un’avvocata, proprio come i Grup Yorum, è morta di fame. Pesava ormai 30 kg. È morta in un carcere turco condannata a 13 anni per aver svolto il suo dovere di avvocato. È morta una donna, di fame, in un carcere.

Analizziamole bene queste parole. Siamo forse nella Grecia dei colonnelli, negli anni 70? Siamo ad Atene nella storia narrata dalla Fallaci ne “Un uomo”? Nossignori. Siamo nel 2020, in un paese che continua a definirsi democratico mentre il Sultano regna indisturbato, mentre il sistema di giustizia penale non esiste in pratica più e nella carceri i detenuti per reati politici si lasciano morire di fame. I dissidenti sono inghiottiti dal buio delle carceri e nessuno brucia ambasciate, nessun leader europeo interviene preoccupato.

Ho negli occhi l’immagine di una donna piccolissima, col volto scavato e gli occhi scurissimi, dietro le sbarre. Mi sembra di vedere il Zakarikis di turno che la importuna, che non le lascia le penne e la carta per scrivere. Sogno di vederla zoppicare fuori dal carcere per la luce del sole a cui non è più abituata. Mi sembra di vedere giorni infiniti con lo stomaco che stringe e l’abitudine a vivere di solo acqua zuccherata, giorni passati a sperare nelle pressioni internazionali che salvarono Panagulis nel 70, e che però nell’era moderna non sono arrivate, nè per Ebru nè per i Grup Yorum.

La comunità internazionale è morta. E mi sembrano quasi un insulto le frasi di cordoglio perché non sono sufficienti, non più, non ora. E mi sembra un insulto il silenzio assordante delle autorità italiane sul caso e di cui si intendono bene le ragioni. Il premier Conte, uomo di diritto, tace. E tace il Ministro degli Affari Esteri, impegnato a postare i fumetti sulla sua abbronzatura. Arriva un momento in cui tacere è un delitto. Un reato nei confronti dei diritti naturali che tanto abbiamo studiato.

Si noti la grande e paradossale differenza: se Panagulis fu liberato grazie alle proteste internazionali, si badi, pur avendo attentato alla vita del despota Papadopoulos con il tritolo, nel 2020 tutti abbiamo taciuto durante i 238 giorni di sciopero della fame da parte di un avvocato dei diritti umani. Morta per averli difesi, quei diritti umani che abbiamo dimenticato, o meglio che esistono anche fuori dai nostri confini e che ignoriamo.

Sono gli stessi autoritari al potere, sono uguali le censure, quel che è cambiato è il contorno di quelli che si definiscono Stati di diritto. Ma non bastano le definizioni, e non bastano i messaggi di dispiacere se non sentiamo come nostri gli assassinii di Stati autoritari, se non sentiamo nostre le morti di ogni diritto.

Ed a questo punto l’imperativo categorico rimane per me solo uno: quando torneremo a sentire come un’ingiustizia personale la sofferenza e i soprusi di qualsiasi altra persona nel mondo? Quando il diritto internazionale tornerà lettera viva?

Ebru Timtik è morta sola, l’estrema lotta, l’ultimo strumento possibile per invocare un giusto processo. Al suo funerale non c’erano milioni di turchi con la scritta OXI in ogni dove. Al funerale dell’avv. Timtik il regime lanciava lacrimogeni. Vedete, anche i regimi adesso sono più feroci, e lo sono perché si nutrono del silenzio: agiscono indisturbati e diventano più forti, grazie a noi tutti.

In questo processo, nessuno può essere assolto.

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