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“L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza, Einaudi

Goliarda Sapienza L'arte della gioia


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Questa volta partiamo dalla fine: dopo aver terminato di leggere “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza, con annesse prefazione e postfazione, ci si sente come davanti ad una mostra a cielo aperto; colpiti da ogni lato, pioggia battente, sole, salsedine, si resta incantati e assorbiti dalle pennellate ritmiche di Sapienza, si vuole conoscere di più di questa vita nata per essere grande, a suo modo, a suo dolore.  

G.S. nasce infatti da una famiglia composita e nota: sua madre era Maria Giudice – giornalista, sindacalista, Segretaria della camera del lavoro di Voghera e dirigente della Camera del lavoro in Emilia inviata dal PSI – nominata nel corso della narrazione insieme a personaggi come Angelica Balabanoff. Prima di unirsi rigorosamente senza matrimonio al padre di Goliarda, ha avuto sette figli dall’anarchico Carlo Civardi (anche lui, fonte d’ispirazione per una fra le figure principali del romanzo). Oltre la reticenza di principio verso il matrimonio, se non a suo vantaggio, Modesta sembra ereditare la tempra forte della Giudice: si ricorda l’episodio in cui questa, incinta, prende a sberle in piazza pubblica l’uomo che aveva osato sparlare della sua gravidanza fuori dal matrimonio e non si può evitare di accostarla alla principessina che, ormai a capo degli affari, schiaffeggia Beatrice dalla vita sottile, zoppicante, vezzosa e inconsolabile per le mille conoscenze della sua amata.  

 Sarà la stessa G. a raccontare in un’intervista i luoghi della sua infanzia, ossia quell’isola che fa da sfondo all’intero romanzo col suo pullulare di gabellotti, distese di grano dorato, di sfumature marine e tempeste furiose. La Certa, fin dalle prime pagine, è una presenza fisica e sempre in agguato ma mai totalmente temuta: è un riposo in saggezza, un arrivo che sempre s’annuncia, una grande festa di dolci per i bambini. È tutta la sicilianità, come si usava scrivere nei saggi dell’epoca, che irrompe e straripa. Racconterà di essere cresciuta in una famiglia in cui, fra gli altri, il fratello Ivanoe faceva presto a farle “ingollare” il pane duro a suon di “Carlo Marx per scrivere il Capitale ha fatto morire di fame i suoi figli”: eccola, la genesi della forte componente politica del romanzo. Di quella, ai tempi, atipica famiglia si servirà non solo attingendo alle convinzioni e alle ideologie che infervorano i personaggi nelle pagine, ma anche trasfondendo dialoghi e vivaci intrecci, complessità caratteriali e scontri per narrare gli anni più belli di Modesta e della sua famiglia acquisita: quelli alla Villa suvarita.  

L’arte della gioia fu scritta in nove anni, altri due ne servirono per editarlo completamente: l’autrice non avrebbe mai visto il suo capolavoro pubblicato da Einaudi che in vita lo rifiutò. E però la strada verso il successo di pubblico un’opera del genere, scritta a penna per sentirne il ritmo, la trova e si fa sentire così com’è stata concepita, fragorosamente.  

“Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente.” 

Modesta è povera, sua sorella è “mongoloide”, sua madre “non parla mai. O urla o tace.” Eppure, è una bambina sveglia, tanto da scoprire il piacere con curiosità; non abbastanza da sfuggire alla violenza di un uomo che si dice suo padre. È furiosa la tosta carusa, ed è prevalentemente e per necessità di sopravvivenza un essere pragmatico. Lì, nel buco chiamato casa – una stanza con bagno dove si mangia pane e olive, pane e cipolla, si dorme, – subisce la violenza che si è ipotizzato avesse subìto la stessa Goliarda. Nel sudiciume della miseria la protagonista commetterà il primo omicidio: o voi o me. La mia vita sulla vostra mediocrità. E se gli anni in convento la porteranno a ingraziarsi la madre superiora con occhi dapprima innamorati e poi scopritori di ipocrisie, la spingeranno anche a desiderare l’evasione, all’amore cocente per un sole fuori dalle mura, per la vita sopra ogni cosa, che sempre l’accompagnerà fino alla fine del racconto. È Mimmo l’angelo custode, il giardiniere attento, l’umano fra le morte viventi che le ricorda i piaceri del fuori – mura, dei pericoli persino, i senza dio, i socialisti; Mimmo, onnipresente figura nei momenti di sconforto, nelle decisioni, nei deliri. Seduce uomini e donne, Modesta. Ama senza l’inganno di parole assolute; mentono le parole, alienano i dogmi.  

“Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole (…) e poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni, inventarne delle nuove…” 

Lei sa vivere, amare, studiare, travolgere il dettato. Sta fuori dai margini politici, sentimentali, morali, la principessa Brandiforti. La paura non sembra contemplata, neppure nel dolore fisico, emotivo: tutto viene apertamente affrontato con sorpresa, non ha fine la sua curiosità, la voglia di “partorire sé stessa.”  

“Ho fatto bene a rubare, sempre, la mia parte di gioia a tutto e a tutti”, scriverà la stessa Goliarda in un altro libro pubblicato da Einaudi.  

Con la stessa astuzia con cui riesce a fuggire dal noviziato e dal convento, arrivata alla Villa del Carmelo conquista prima l’amore della piccola Beatrice e poi la stima della principessa Gaia: la “grande vecchia” che intuita l’intelligenza, il polso della ragazzina, l’addestra ai conti, a fronteggiare avvocati e gabellotti, a comandare insomma sulle terre dei Brandiforti. Lo spettro del “mongolismo” è rinchiuso anche nella soffitta dei ricchi: la Cosa, così viene chiamato il principe, vuole solo Modesta, santa figlia. Ed eccola già pronta a fiutare l’occasione: serve un titolo, un matrimonio. Poi servirà liberarsi dalle sbarre d’oro di nonna Gaia che li vorrebbe tutti lì, chiusi nella villa, a fare la guardia ai morti in guerra. Prendi ciò che di meglio ti danno, liberati del marcio e delle sbarre: sembra questo il modus operandi che senza alcun limite o scrupolo è pronta a mettere in atto.  

È a Catania che Vossignoria Mody finalmente vede il mare, e sono lacrime di felicità, cittadini ostili, credenze e usanze troppo strette per lei che padroni non ha, né di testa né di cuore né di tasca. Inizierà da qui un periodo ricchissimo di relazioni amorose, di scoperta di sé, della potenza del corpo, di amicizie che dureranno tutta la vita. Modesta madre, amica, sorella, amante, è risoluta, scaltra, ironica, instancabile; è però anche fragile nei dubbi, da scavarsi puntigliosamente fino in fondo, con quel “vizio di parlare a me stessa” per usare le parole di G. riferite a sé stessa che rende spettatori di una mente e di tutte le nostre, come solo una grande penna e capacità di osservazione possono fare. La maestria sta anche nel tratteggiare sentimenti radicati e però al tempo stesso mutevoli, cambia forma l’amore, l’affetto: quello che si impara a tentoni nella vita Sapienza ha l’ardire e l’ambizione riuscita di trasporlo come fossimo al cinema, con leggerezza e tempi giusti. Com’era grande l’amore per quel Vecchio, per i suoi ricci: dissoluzione, evoluzione, percepiamo l’andare del tempo, sì, – beata consolazione letteraria – ma dolcemente, tutto è memoria amatissima restituita con la stessa Gioia con cui si è impetuosamente vissuto. 

Il romanzo di una e cento vite non può che stagliarsi sulle dinamiche politiche dell’Italia dai primi del Novecento sino agli anni Sessanta – Settanta: è anche questo che rende L’arte della gioia un quadro completo che lascia il lettore sorpreso e arricchito per sempre. Non manca alcun ingrediente nella scrittura e nella struttura di Sapienza: stile, linguaggio, storia, emozione.  

L’arte della gioia ci ha consegnato “il personaggio più vivo di tutto il Novecento”, uno di quelli destinati a rimanere al proprio posto in libreria precariamente, sempre ripreso, riletto, non fosse altro che per assaporare ancora una volta la dolcezza di “voltare lo sguardo e spingere piano con le mani” il sipario, entrare in scena, conquistare la propria parte di gioia. 

Valentina Falsetta 

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Riferimenti:

“L’arte della gioia”, Einaudi;

“Ancestrale” ed La vita Felice, Goliarda Sapienza;

“La mia parte di gioia”, Einaudi, Goliarda Sapienza.