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Osservatrice aggravata al Salone del Libro di Torino 2022


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L’ha detto Nicola Lagioia, i cuori selvaggi servono a salvarci da ciò che esiste di selvaggio nei cuori. Spesse volte viene usato selvatico come sinonimo di selvaggio, i significati sono invece diversi, seppur accostabili.

Selvatico è chi avanza lontano dall’umano e dalla civiltà, selvaggio è chi non si fa addomesticare.

Questi cuori selvaggi di scrittori e lettori non si sono fatti ammaestrare dal grigio monolitico dei giorni: per raccontare una storia, ho sempre creduto si debba compiere la scelta di essere eretici verso qualcosa, verso qualcuno. Talvolta contro noi stessi, ma sempre – sempre- dentro gli altri, con gli altri. Scriviamo di persone, le togliamo dalla miseria del quotidiano per elevarle a storia universale, e poi quelle non ci riconoscono, ci rifiutano, oppure ci amano ma non ci pervadono.

Ci si rilegge in certi giorni con fatica per non rimembrare l’esperienza selvaggia di sviscerarsi. C’è la solitudine ad ondate nei cuori selvaggi, e pure la sofferenza che s’accompagna alla corsa verso i cuori degli altri.

Nei modi omologati che attraversiamo, scrivere e rielaborare, ed analizzare, stanno fissi nel tempio delle cose che abituano a non farci ammansire.

A trascurare le righe in cui dovremmo stare si prende il gusto di portare negli altri la passione di evadere.

E quindi siamo così, non addomesticabili, sfuggenti a facili opportunità, seguiamo l’autentico a costo di perdere la spensieratezza dei giorni. E poi la gioia sta tutta lì.