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Trilogia della città di K. è un romanzo che non svanisce


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Ho letto Trilogia della città di K mesi fa, è passato del tempo, eppure mi è rimasto addosso quel senso di grigiore cattivo di cui è intriso l’intero romanzo.

Forse dovrei soprannominarlo, come hanno fatto in molti, “una favola oscura”? Oggettivamente sono due aggettivi che si accostano perfettamente al tipo di narrazione della Kristof. 

Nella prima parte, Il grande quaderno, i toni sono effettivamente quelli di una favola: ci sono due gemelli,  una nonna chiamata la strega, cattivi da cui imparare qualcosa e non da combattere.

È il trionfo ancora una volta dell’anti-eroe.

Una favola così schietta che immediatamente si tinge di noir, tanto che il lettore storce il naso, nella lettura delle prime pagine, impreparato difronte a tanta crudità.

Ci si ritrova ad essere spettatori di due creature dapprima innocenti, che diventano poi, in un crescendo di paure, cinicamente e molto freddamente piccoli criminali, ed è solo in questo modo che riescono a sopravvivere nella Piccola città. 

I tempi sono duri, quelli di una guerra che non risparmia nessuno, che fa a pezzi chi non è abbastanza furbo da difendersi, che toglie loro qualsiasi barlume d’umanità, che ricorda neanche tanto vagamente gli abusi a Sarajevo: violenze all’ordine del giorno nei confronti di donne e bambini, il freddo dei paesi dell’est Europa benché non emerga mai il reale luogo della narrazione; gli unici atti di gentilezza sono quelli di donare a Labbro leporino e alla madre alimenti per cui non vogliono mai ricevere gratitudine, nessuna bontà, solo un gesto meccanico.

Il primo libro procede quindi ad un ritmo incalzante, fra le sventure e le brutture che non saranno mai condite dalle lacrime dei gemelli: inflessibili alle intemperie.

Cosa si sta leggendo? È un racconto di fantasia partorito da una mente disagiata e sadica? Le risposte arriveranno solo dopo le molte vicissitudini e quasi al tramonto della loro vita.

La scrittura di Agota Kristof accompagna il clima gelido e le avventure annotate nel grande quaderno: è fredda, tagliente, poche virgole e molti punti, periodi brevi.

Eppure è scorrevole, a tratti spietata, nonostante questo quasi non ci si sofferma sulla reale crudeltà delle azioni: siamo sorpresi, ma vogliamo comprendere a fondo le motivazioni. 

Il lettore diventa dapprima asettico e successivamente apatico, anestetizzato da ciò che sembra normale nella realtà dei protagonisti, mentre di normalità c’è e ci sarà ben poco fino all’ultima pagina del libro.

Non vi è nessun coinvolgimento emozionale, è semplicemente un resoconto di una guerra che potrebbe verificarsi domani stesso, e trasformare anche noi in deboli e forti all’estremo, senza nessuna regola nè pietà, ciò che in verità sembra verificarsi ogni giorno nei casi di cronaca nera.

La terza parte è quella che inizia a far comprendere il retroscena al lettore, i toni noir permangono, ma questa volta solo per raccontare ciò che c’è di vero nella storia dei due gemelli -piccoli nell’età ma non nel coraggio- per scoprire lentamente una realtà al gusto di amarezze mescolate al rimpianto, non lasciando indietro l’inevitabile rassegnazione di una vita passata ad accettare il male: il tema della creazione di un rifugio nella fantasia per sfuggire al dolore di un’infanzia perduta, il creare mondi diversi neanche tanto migliori della vita reale dei protagonisti adulti, al fine di esorcizzare dolori troppo grandi da portare sulle spalle.

Agota Kristof afferra quanto c’è di buono in un essere umano con artigli d’acciaio, per poi lasciarti inebetito, sconvolto, confuso.

Forse non siamo poi così lontani dalla città di K.

Forse quello che urgeva era risvegliare le coscienze da un mondo che è più nero di quanto noi vogliamo accettare.

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